martedì 13 gennaio 2009

scheda: Una vita da ospite: usare tutto senza avere nulla. Il distacco dalle cose come condizione per “possederle sempre”

Ci sono tre figure che disegnano il racconto di oggi: Abramo, Gesù e il giovane ricco.
Il primo ha saputo transitare con distacco tra le cose; ha spostato continuamente i paletti della sua tenda; ha “girato il mondo” senza cercare di creare un patrimonio fisso, stabile (immobile), finché non ha comperato un campo, apparentemente solo per la sua sepoltura, di fatto dando inizio al diritto d’Israele di stare in quel territorio.
Gesù è invece vissuto prima da emigrante e poi da “nomade”, è uscito dalla sua famiglia e dal suo villaggio per stare dove lo portava il suo bisogno di predicazione e di annuncio: non possedeva neanche la tenda e le greggi di Abramo e doveva elemosinare quotidianamente il cibo e un posto per dormire.
Il giovane ricco, saggiamente, era fedele osservante di tutta la Legge e attento alla salvaguardia del suo patrimonio, ricevuto in eredità e probabilmente ben amministrato e accresciuto: un vero modello di saggezza e anche di attenzione agli altri (con elemosine ed elargizioni secondo quanto comanda la Legge/Religione).
Eppure quel giovane è evangelicamente diventato modello di fallimento: si è tirato indietro di fronte alla proposta di Gesù.
Facile per noi “condannarlo”col cuore, salvo poi scoprire che tutta la nostra vita è ricerca di “patrimonio, sicurezza, amministrazione saggia delle cose …”. Ma anche la Chiesa, con il suo insegnamento e il suo comportamento ci spinge a questa “saggezza da giovane ricco” amministrando con interesse il suo patrimonio e invitandoci a fare altrettanto …
Proviamo allora a farci qualche domanda:



Decisione coraggiosa se non imprudente, quella di Abramo, ma forse indispensabile per relativizzare le sicurezze del passato rappresentate dalla saggezza di Terah.
Oggi, venerare Abramo come “padre” cosa significa? Accettare la sfida del distacco dalle certezze e dalle sagge sicurezze del buon senso? E per che cosa? E con che grado di rischio?

Come è possibile capire se la scelta di “vivere da stranieri nella cultura contemporanea” (il mio regno non è di questo mondo) non è una stravaganza ma un imperativo della fede?



Comperare un campo per la sepoltura della propria famiglia. È un gesto che fa fare un passo avanti alla promessa di Dio e insieme è la premessa di future lotte e guerre tra popoli che si sono differenziati per lingua, religione, cultura … ma che si riconoscono con orgoglio progenie di Abramo.
Perché è necessario avere una terra per essere un popolo? Può una terra essere condivisa tra più popoli?
Si può essere cittadini di uno stato se si hanno lingua, cultura, religione, usi e costumi diversi? Cosa si deve condividere per poter essere “cittadini” sullo stesso territorio?
Un esempio concreto: gli arabo-israeliani possono essere cittadini d’Israele?
E gli emigranti che “atterrano” da noi, quando possono essere definiti italiani? Quando parlano la nostra lingua? Quando conoscono la nostra cultura? Quando vestono come noi? Quando accettano le nostre regole sulla famiglia, sulla scuola, sulla politica?
Due esempi di contraddizione:
Noi siamo “permissivi” sulle convivenze senza matrimonio e non consideriamo un reato il
“tradimento”. Perché siamo intolleranti se altri chiedono due mogli alla luce del sole?

Molti chiedono che i valori “cristiani fondanti” siano considerati parte della costituzione europea,
anche se poi il cristianesimo non è accettato né praticato dalla maggioranza. Perché chi viene da
un’altra civiltà e da un’altra religione, magari pure praticata e seguita, li deve accettare ma non può
chiedere che vengano riconosciuti anche quelli della sua fede?

Gesù grida “Beati” e invita ad avere un atteggiamento di distacco totale dalle cose e dai beni, a non preoccuparsi minimamente del domani. Il suo è quasi un contrordine rispetto al comandamento iniziale di Dio (Popolate la terra e assoggettatela); chi ha ragione? Il Padre o il Figlio?
Perché Gesù (e Abramo) se la prendono con il giovane ricco? Per la sua prudenza?

Torna a questo punto una domanda già affiorata a novembre.
Nella Rerum Novarum, che è un po’ il documento di riferimento di tutto il pensiero sociale della Chiesa, ripreso dalle successive encicliche sull’argomento, si afferma con chiarezza che la proprietà privata “… è diritto di natura …”. Positivamente significa che ogni uomo ha diritto a una identità e che questa ha bisogno di una “proprietà inalienabile” per esprimersi.
Conseguentemente ogni declinazione concreta di azione sociale dei cattolici dovrebbe avere come base l’impegno a garantire questa dignità minima. Tuttavia non conosco alcuna esplicitazione concreta di tale affermazione (es. tutti devono avere una casa), né i limiti di tale possesso (es. tre sono troppe). Eppure sono passati più di cento anni da quel pronunciamento. Allora, oggi che il “comunismo” non esiste più, quale denuncia vogliamo fare dell’inattuazione di questo principio? Forse bisogna cominciare a denunciare i patrimoni eccessivi, gli accumuli esagerati di ricchezza, i profitti non socializzati (tassati) … forse va sviluppata una vera teologia e una prassi pastorale del “distacco” ….

1 commento:

  1. Circa la domanda provocatoria su chi ha ragione tra il Padre e il Figlio…
    È evidente che non è possibile prendere alla lettera le parole che Gesù rivolge al giovane ricco: che genere di economia moderna potrebbe nascere da tali esortazioni? Fin dall’inizio queste parole dure hanno provocato reazioni negative, si è preferito considerarle come una chiamata personale e non un insegnamento valido per tutti.
    D’altronde la Bibbia non condanna delle ricchezze (nell’AT erano considerate come segno di benedizione di Dio). Siamo di fronte al paradosso cristiano, come il catechismo della chiesa cattolica definisce le beatitudini.
    Tuttavia sarebbe assurdo definirsi cristiani e non seguire quanto ha detto Gesù, non una volta, ma in tutta la sua vita di predicazione.
    Dobbiamo tener presente il contesto in cui si muovono il Padre e il Figlio.
    Il “moltiplicatevi e assoggettate la terra” viene posto all’inizio della creazione e rappresenta lo scopo stesso dell’umanità, spiega il passaggio tra la creazione della coppia umana in un ambiente atemporale e fuori dal mondo e la diffusione degli uomini sulla terra, lo sviluppo di una società pensante. È come l’evoluzione del bambino, che dalla felicità irresponsabile del ventre materno impara a camminare con le sue gambe, a procurarsi il cibo, a dominare l’ambiente che lo circonda.
    Ben diverso il contesto di Gesù: quanti millenni sono passati dall’inizio dell’umanità (più o meno 80.000 anni se vogliamo fermarci all’Homo sapiens di Neanderthal)? In tutto questo tempo l’umanità ha potuto progredire e raffinarsi, apprendere tutte le tecniche e gli espedienti per vivere e sopravvivere. L’uomo è in grado di cogliere al volo tutto ciò che lo fa star bene e ne è continuamente alla ricerca. Prima per soddisfare i suoi bisogni primari, vincere la sete, la fame, il freddo, il buio, la malattia. Poi, sempre più, scopre nuove esigenze, più sottili, ma necessarie per quella che oggi noi definiamo “qualità della vita”. Nel primo come nel secondo caso, si trova di fronte ad altri uomini con gli stessi desideri e deve scegliere se soccombere o sopravvivere. Quindi, di generazione in generazione, ecco formarsi famiglie più forti (più furbe, fortunate, violente, numerose…chissà con quali motivazioni più o meno “etiche”) che si arricchiscono (in tutti i sensi) a discapito dei più deboli. Le origini di questa “forza” si perdono poi nella notte dei tempi…tanto si sa che, come avviene per le guerre, i vincitori cambiano la storia a loro favore, procurandosi anche l’onorabilità e garantendosi il mantenimento dello status quo per i propri discendenti!
    Gesù arriva in questo contesto ormai consolidato come uno tsunami: sostiene che nessuno di noi deve giudicarsi migliore per nascita o per merito, nessuno è privilegiato, l’uomo non si definisce in base alle cose che possiede (non solo quelle materiali, ma la cultura, la salute, i talenti, ecc), bensì per la sua capacità di usarle a favore degli altri. Come osserva Martini, Gesù insegna ad amare gli altri perché sono uguali a noi e testimonia che cambiare il mondo significa togliere agli uomini le loro paure, ridurre le aggressività, abolire le ingiustizie tra poveri e ricchi.
    Di fronte alla domanda di valore assoluto del giovane ricco, Gesù propone l’antidoto alla sclerotizzazione dell’egoismo e dell’avidità, che è la libertà del cuore, radice stessa del discernimento. E che vale per tutti: dal singolo, alla comunità, alla società, premessa di quella civiltà dell’amore auspicata da Paolo VI, caratterizzata dalla giustizia sociale, il dall’apertura ai problemi dei più deboli, soprattutto quelli del sud del mondo.
    Daniela

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